Con la sentenza n. 3211 depositata il 26 gennaio 2024, la quinta Sezione penale della Corte di cassazione si è pronunciata in tema di rivelazione di segreti scientifici o industriali (art. 623 c.p.) e sulla c.d. reverse engineering, che viene definita come una «sofisticata modalità di copia di un prodotto».
In particolare, occorre evidenziare che la Suprema Corte, con la citata sentenza, ha statuito che la tecnica della reverse engineering, attraverso cui viene riprodotto un macchinario o un prototipo di esso, può rientrare tra le condotte sanzionate dall’art. 623 c.p., poiché, diversamente, «sarebbe facilmente elusa la tutela del segreto industriale riproducendo, anche ripetutamente, il prodotto di un’impresa che ha sviluppato per l’ideazione dello stesso complessi progetti di ricerca».
Per la Corte, il reato di rivelazione di segreti scientifici o industriali, che tutela il c.d. know how, ossia il patrimonio cognitivo ed organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un prodotto industriale, risulta integrato ogniqualvolta venga indebitamente divulgato un segreto afferente anche a una sola parte del processo produttivo, non essendo, invece, necessaria una rivelazione della totalità delle componenti del prodotto.
I giudici di legittimità hanno chiarito che, ad assumere rilievo nella delimitazione del concetto di notizia coperta da segreto, è l’insieme delle «operazioni fondamentali per la realizzazione dei prototipi di un determinato impianto, operazioni che costituiscano il “cuore” degli stessi e che siano il frutto della cognizione e della organizzazione dell’impresa».
Alla luce di tali principi la Corte di cassazione ha ritenuto corretta l’affermazione, da parte della Corte territoriale, della penale responsabilità dei ricorrenti, in quanto è stata riscontrata una rilevante analogia tra le due macchine in esame, a nulla rilevando la circostanza che le componenti di queste non risultassero identiche.
Che cosa si intende per reverse engineering?
La reverse engineering, consiste nell’analisi della struttura e del funzionamento di un prodotto, sia fisico sia software, che permette ad altri produttori di replicare la progettazione dell’oggetto, o apportare modifiche o migliorie allo stesso.
Tale tecnica viene impiegata in numerosi ambiti, tra i quali si annoverano quelli di ricerca e sviluppo industriale, nei quali l’utilizzo della reverse engineering consente l’analisi di prodotti concorrenti al fine di trarne ispirazione per implementare i propri. Un altro campo è quello dei software nei quali l’ingegneria inversa, o decompilazione, permette di conoscere il funzionamento di un software proprietario e di svilupparne altri compatibili.
Passando ad esaminare la disciplina di tale tecnica, vengono in rilievo diverse norme, tra le quali si registrano gli artt. 2575 c.c. e seguenti che tutelano il diritto d’autore, anche con riferimento ai software, nonché l’art. 2578 c.c. che tutela i progetti di lavori di ingegneria.
Il diritto d’autore, in campo informatico, viene tutelato anche e soprattutto dalla legge 22 aprile 1941 n.633, che all’art. 64 bis, vieta la decompilazione di software protetti da copyright senza l’autorizzazione del titolare.
Viene in rilievo poi il d.lgs. 10 febbraio 2005 n.30, il codice della proprietà industriale, il quale vieta la riproduzione non autorizzata di prodotti brevettati. Inoltre, agli artt. 98 e 99 del codice vengono tutelati i c.d. segreti commerciali, solo qualora le informazioni siano segrete, abbiano valore economico in quanto segrete e siano sottoposte da parte del detentore a misure adeguate a mantenerle segrete[1].
Infine, a tutela del know how si riscontra il citato art. 623 cod. pen., a norma del quale «chiunque, venuto a cognizione per ragione del suo stato o ufficio, o della sua professione o arte, di segreti commerciali o di notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche, li rivela o li impiega a proprio o altrui profitto, è punito con la reclusione fino a due anni. La stessa pena si applica a chiunque, avendo acquisito in modo abusivo segreti commerciali, li rivela o li impiega a proprio o altrui profitto». Tale norma incriminatrice, volta a tutelare l’interesse a ché non vengano divulgate notizie riservate afferenti ai sistemi che connotato la struttura industriale, risulta integrata allorquando la condotta realizzata dal soggetto agente abbia ad oggetto invenzioni scientifiche di applicazione industriale o professionale e le relative modalità di applicazione.
Si tratta di interessi di natura economico-patrimoniale che assumono un duplice rilievo: il primo concerne il profitto in ambito concorrenziale derivante dallo sfruttamento delle conoscenze che devono restare segrete; il secondo riguarda il costo sostenuto dall’impresa per il conseguimento di tali conoscenze.
Si pone una domanda fondamentale: quando il segreto industriale risulta penalmente tutelabile? Si può affermare che esso rientri nel perimetro di tutela dell’art. 623 c.p. qualora vi sia un concreto interesse economico dell’impresa alla sua protezione secondo il criterio delle attività di concorrenza. Infatti, sono tutelate le informazioni su scoperte scientifiche, invenzioni e applicazioni industriali la cui divulgazione è in grado di danneggiare, in ambito concorrenziale, l’impresa proprietaria della notizia.
L’affermazione secondo la quale il segreto industriale costituirebbe un ostacolo all’iniziativa economica di terzi non può essere ritenuta condivisibile, in quanto la nostra Costituzione, che all’art. 41 prevede la libertà di iniziativa economica, non prevede un sistema di concorrenza perfetta.
In riferimento alle questioni critiche della reverse engineering, occorre evidenziare che questa tecnica è considerata generalmente lecita. Tuttavia, l’utilizzo dell’ingegneria inversa che viola le norme in materia di copyright, ovvero di brevetto, nonché la disciplina sul segreto industriale, dà luogo a comportamenti illeciti sanzionabili ai sensi del codice penale, civile e delle leggi speciali sopramenzionate.
Ad esempio, qualora l’accesso ad un segreto commerciale, che venga effettuato mediante la reverse engineering, richieda tempi e costi molto ingenti, le informazioni vengono ritenute segrete, e, pertanto viene in rilievo l’art. 98 del codice della proprietà industriale in quanto si tratta di acquisizione abusiva[2].
A definire i limiti della reverse engineering è, poi, la Direttiva 2009/24/CE relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore, la quale prevede la possibilità di procedere all’ingegneria inversa di un software anche senza l’autorizzazione del titolare dei diritti quando lo scopo è quello di «ottenere le informazioni necessarie per conseguire l’interoperabilità con altri programmi di un programma per elaboratore creato autonomamente»[3]. Tale operazione è subordinata al ricorrere di talune condizioni, quali: l’attività deve essere eseguita dal licenziatario o da un altro soggetto che abbia il diritto di utilizzare una copia del programma; le informazioni utili per ottenere l’interoperabilità non devono essere facilmente accessibili a tali persone; e infine queste attività devono concernere le parti del programma originale necessarie per l’interoperabilità.
Il dibattito sulla reverse engineering è destinato ad assumere particolare rilevanza sul piano giuridico in quanto risulterà necessario definire più dettagliatamente i confini della liceità di tale tecnica che potrebbe espandere in modo esponenziale le proprie possibilità grazie ai sistemi di intelligenza artificiale ed ai mezzi di scansione tridimensionale.
NOTE
[1] Sul punto, v. Tutela dei segreti commerciali: misure di segretezza e sicurezza per proteggere il know-how aziendale, in www.cybersecurity360.it
[2] Cfr. Recenti pronunce in tema di segreto commerciale, in Il Diritto industriale 6/2023, pag. 591
[3] Così art. 6 Direttiva 2009/24/CE
Comments