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  • Immagine del redattoreAvv. Andrea Guidi

La diffamazione a mezzo social network non può essere punita con pena detentiva

Aggiornamento: 13 gen



In tema di diffamazione via social network (nel caso concreto, via Facebook), la V sezione penale della Cassazione (sentenza n. 13993 ud. 17/02/2021 - deposito del 14/04/2021) ha chiarito che, al pari della diffamazione a mezzo stampa, questa non è punibile con sanzione detentiva, anche se condizionalmente sospesa, a meno che siano lesi gravemente diritti fondamentali diversi dalla libertà di espressione garantita dall'art. 10 della CEDU.

Rientrerebbero in tale ultima previsione "discorsi di odio o di istigazione alla violenza".


Aveva già chiarito la Corte EDU, in considerazione della funzione di watchdog che la libera stampa ha in una società democratica, (Corte EDU, caso Bladet Tromso e Stensaas c. Norvegia, 20.5.1999; Corte EDU, caso Cumpana e Mazare c. Romania, 17.12.2004; Corte EDU, caso Riolo c. Italia, 17.7.2008; Corte EDU, caso Gutierrez Suarez c. Spagna, 1.6.2010; Corte EDU, caso Belpietro c. Italia, 24.9.2013) che la previsione di pene detentive in capo ai giornalisti avrebbe avuto un effetto dissuasivo (chilling effect) rispetto all'esercizio della libertà di espressione.


Sulla materia è anche intervenuta la Corte costituzionale che, con l'ordinanza n. 132 del 9 giugno 2020, adottando il medesimo schema decisorio già seguito per il "caso Cappato" nel giudizio di legittimità della fattispecie di aiuto al suicidio di cui all'art. 580 c.p. (C. Cost. 207/2018), e tenendo conto della pendenza in Parlamento di diversi progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo stampa, ha rinviato di un anno la decisione, demandando al legislatore "la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell'attività giornalistica", e, dall'altro, "di assicurare un'adeguata tutela della reputazione individuale", disegnando "un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco", che contempli non solo il ricorso a sanzioni penali non detentive e a rimedi civilistici e riparatori, ma anche a "efficaci misure di carattere disciplinare", e che riservi la pena detentiva soltanto alle condotte che "assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d'odio".


A seguito della pronuncia della Corte costituzionale, la Corte di legittimità ha chiarito che spetta al giudice del merito accertare la ricorrenza dell'eccezionale gravità della condotta diffamatoria attributiva di un fatto determinato - che implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d'odio -, che, secondo un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, sola giustificherebbe l'applicazione della pena detentiva (Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, Carchidi, Rv. 279468).


La sentenza della V sezione penale, qui in esame, si è posta il problema se manifestazioni della libertà di espressione, estranee all'attività giornalistica, siano poste anch'esse sotto l'ombrello della giurisprudenza costituzionale e convenzionale, con la conseguente limitazione dei rimedi sanzionatori.


In applicazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, la Corte ha ritenuto che anche per la diffamazione commessa via social network operi il divieto di sanzioni detentive (con le limitazioni precisate per lo hate speech): la soluzione contraria avrebbe comportato un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque minore, complessiva, offensività, rispetto a quelli commessi nell'esercizio dell'attività giornalistica.






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