IL FALSO NELL'ARTE: il problema della prova
- Avv. Andrea Guidi

- 6 giorni fa
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Michelangelo
La storia del falso ha conosciuto anche momenti di gloria.
Nel 1496 un Michelangelo Buonarroti ventenne scolpì, alla maniera degli antichi, un Cupido Dormiente (ora perduto) su commissione di Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici (detto il Popolano, cugino del Magnifico).
La statuetta fu vista da Antonio Maria Pico della Mirandola che così la descrisse «Un Cupido che giace e dorme posato su una mano: è integro ed è lungo circa 4 spanne, ed è bellissimo; c'è chi lo ritiene antico e chi moderno; comunque sia, è ritenuto ed è perfettissimo».
A quell'epoca furoreggiava la moda del collezionismo antiquario e, al Popolano, venne l'idea di far seppellire l'oggetto per conferirgli una patina d'antico (non sappiamo se Michelangelo fosse a conoscenza dell'artificio truffaldino) e di offrirlo in vendita al più famoso, e danaroso, collezionista del tempo, il Cardinale Riario, nipote di Sisto IV.
L'affare fu concluso tramite tal Baldassarre Del Milanese, un mercante che riuscì a convincere il Cardinale ad acquistare l'antico putto per duecento ducati. Sembra che Michelangelo sia stato ricompensato con soli 20 ducati.
Ma la notizia dell'imbroglio iniziò a circolare e arrivò anche all'orecchio del Cardinale che inviò un suo detective a Firenze, che, con una scusa, riuscì a risalire al vero autore del Cupido.
Il Riario non solo riuscì a farsi restituire il maltolto, ma, compresa la grandezza del giovane falsario, lo condusse con sé a Roma decretandone la fama universale.
Non tutti i falsi hanno una storia così affascinante (o divertente come quella delle strepitose teste di Modigliani ripescate nei canali livornesi), anzi, la massiccia presenza di opere contraffatte inquina il mercato collezionistico, soprattutto in relazione all'arte contemporanea, tecnicamente molto più facile da replicare.
Il sistema giuridico italiano affida al Titolo VIII-bis del Codice Penale, la repressione delle più gravi aggressioni al patrimonio culturale, ponendo particolare enfasi sul contrasto alla falsificazione delle opere d'arte.
Il cuore di questa nuova disciplina è rappresentato dall'articolo 518-quaterdecies, rubricato "Contraffazione di opere d'arte", norma che non solo sanziona la produzione di falsi, ma interviene in modo rigoroso sull'intera filiera della circolazione illecita.
Gli elementi costitutivi del reato di contraffazione
Il delitto di contraffazione di opere d'arte è considerato di natura plurioffensiva. Esso non mira a proteggere solo l'integrità del bene culturale in sé, ma anche la fede pubblica e, in particolare, la regolarità e la correttezza degli scambi all'interno del mercato artistico e antiquario, mirando alla tutela degli acquirenti.
Le opere protette includono quelle di pittura, scultura o grafica, nonché gli oggetti di antichità o di interesse storico o archeologico. La sanzione prevista è la reclusione da uno a cinque anni, accompagnata da una multa che va da euro 3.000 a euro 10.000.
L'articolo 518-quaterdecies indica quattro classi di condotte ben distinte:
1. Le condotte produttive (contraffazione, alterazione o riproduzione): la norma punisce chiunque "contraffà, altera o riproduce" un'opera. In questo caso, la punibilità è subordinata alla sussistenza del dolo specifico: è necessario che la condotta sia posta in essere "al fine di trarne profitto".
2. Le condotte commerciali (messa in circolazione): la seconda ipotesi punisce chi, anche senza aver partecipato alla creazione del falso, "pone in commercio, detiene per farne commercio, introduce nel territorio dello Stato o comunque pone in circolazione" opere false come autentiche.
3. L'autenticazione falsa: La terza condotta incriminata riguarda chi autentica opere o oggetti contraffatti, alterati o riprodotti.
4. L'accreditamento falso: La quarta fattispecie, più ampia, punisce chiunque accredita o contribuisce ad accreditare il falso come autentico, utilizzando mezzi diversi dall'autenticazione formale, quali "dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizione di timbri o etichette".
Per quanto concerne l'elemento psicologico, la necessità del dolo (inteso come coscienza e volontà di realizzare il fatto tipico) è un requisito essenziale, declinato in modi diversi a seconda della condotta. Come si è visto, infatti, la produzione del falso richiede il dolo specifico del fine di profitto. Per le condotte di messa in circolazione, autenticazione e accreditamento, invece, è richiesta la conoscenza della falsità dell'opera. La coloritura dell'elemento soggettivo indicata dal legislatore sottolinea come la repressione penale sia focalizzata non tanto sulla mera esistenza di una copia, quanto sull'inganno perpetrato, presentando il falso come vero.
È fondamentale notare che la riproduzione, detenzione o diffusione di copie non autentiche, quando queste siano dichiarate espressamente come non autentiche (ad esempio mediante annotazione scritta sull'opera o dichiarazione al momento della vendita), non rientra nell'ambito di applicazione del 518-quaterdecies, configurando un caso di non punibilità (art. 518-quinquiesdecies c.p.).
Il Concetto di falso d’arte e l’impasse dell’arte concettuale
La giurisprudenza, nel confrontarsi con la falsificazione, deve tenere conto della crescente complessità del mercato e della natura stessa delle opere. L'attribuzione di un'opera è cruciale, poiché ne dipende non solo il suo valore economico, ma anche il diritto morale dell’autore a non vedersi attribuire opere non sue, la tutela della sua reputazione, e l'integrità complessiva del mercato.
La questione della paternità artistica è divenuta particolarmente complessa nel corso del XX secolo che ha assistito alla creazione di forme d'arte nelle quali la realizzazione materiale è spesso secondaria rispetto all'idea sottesa. L’arte concettuale, in particolare, rappresenta un terreno scivoloso per la valutazione della falsità.
Di fronte a un'opera concettuale o ready-made, forme d'arte che autorizzano l'artista a delegare l'esecuzione o dove la materialità è minima, gli accertamenti tecnico-scientifici tradizionali che soccorrono per l'arte antica diventano insufficienti o inapplicabili. In tali contesti, la valutazione di autenticità non può basarsi su una mera "perfezione formale" o sulla rispondenza a canoni stilistici rigidi, specialmente in relazione ad artisti che, nel tempo, hanno sperimentato diverse forme espressive.
La sentenza del Tribunale di Bolzano e i criteri di valutazione della prova
La recente pronuncia del Tribunale di Bolzano, (Sentenza n. 1715/2023 a firma del Giudice dott. Alvise Dalla Francesca Cappello) assume un ruolo paradigmatico nel definire lo standard probatorio richiesto per accertare la falsità di opere d'arte contemporanea in sede penale.
La vicenda riguardava la presunta falsificazione di opere di Gino De Dominicis sequestrate presso una galleria d'arte locale.
Il Tribunale ha adottato un approccio rigoroso nel valutare i criteri idonei a fondare un giudizio di autenticità, richiamando la necessità di "essere particolarmente rigido nel non confondere i piani che devono distinguere una discussione in tema d’arte dalla motivazione di un provvedimento giudiziario".
Il principio fondamentale stabilito dalla sentenza è che la prova della falsità, per poter sostenere un giudizio di responsabilità penale, deve superare lo standard dell'oltre ogni ragionevole dubbio. Di conseguenza, sono stati ritenuti inidonei a fondare tale giudizio i criteri di natura esclusivamente soggettiva o le considerazioni prive di un riscontro obiettivo e fattuale.
Nella sentenza, il Giudice ha censurato l'impianto accusatorio, basato in gran parte su una consulenza tecnica che utilizzava parametri di valutazione vaghi e apodittici. Termini come la "morbidezza del tratto" o la presunta mancanza di "accuratezza di dettaglio", o ancora i continui riferimenti alla "poetica dell’artista" o alla "tecnica dilettantesca della stesura del colore" sono stati giudicati privi di pregio probatorio in un'aula di giustizia.
Il Tribunale ha criticato l'impostazione accusatoria che sembrava basarsi sull'assioma secondo cui, se le opere esaminate non erano "perfettamente equivalenti ad altre opere passate", allora dovevano essere necessariamente prodotte da un falsario. Tale approccio, oltre ad essere una "confusione dei piani" (ovvero tra critica d'arte e accertamento giudiziale), risultava contraddittorio rispetto alla natura stessa della produzione dell'artista, noto per il suo eclettismo e la continua sperimentazione.
La sentenza sottolineava quindi che gli accertamenti, anche quelli di carattere tecnico-scientifico, devono essere condotti con estremo rigore e non possono fondarsi su considerazioni personali che mancano di evidenza oggettiva.
Il problema dell'expertise e il conflitto di interessi delle fondazioni
Un elemento di grande rilevanza, affrontato con chiarezza dalla sentenza di Bolzano, riguarda l'affidabilità delle expertise e delle dichiarazioni di autenticità provenienti da fondazioni o archivi collegati agli eredi degli artisti, soprattutto quando questi siano in competizione tra loro.
Il caso esaminato vedeva due archivi concorrenti che si contendevano l'autorità di certificare la produzione artistica dell'autore, un fatto che aveva un significativo impatto economico. Il Tribunale ha rilevato che nel mercato dell'arte l'attribuzione (o non attribuzione) di un'opera è strettamente legata a interessi economici e privatistici.
La pronuncia ha stabilito che le dichiarazioni di autenticità, o non autenticità, provenienti da soggetti in palese conflitto di interessi, risultano prive di attendibilità e non possono essere utilizzate per formare la prova giudiziale penale. Specificamente, il Giudice ha ritenuto che il giudizio espresso dal presidente di uno degli Archivi (che aveva anche curato il catalogo ragionato), fosse "probabilmente inficiato da considerazioni di natura non professionale" derivanti dalle liti in corso con l'archivio concorrente gestito dalla persona imputata.
Il Tribunale ha concluso, in modo perentorio, che il mancato inserimento di un'opera nell'archivio ritenuto più autorevole dal Pubblico Ministero non costituiva elemento fattuale utile all’accertamento giudiziale di falsità. La vicenda, in sostanza, si era tradotta in un "improprio trasferimento in sede giudiziale di uno scontro, squisitamente economico e personalistico, tra archivi e associazioni".
In sintesi, la sentenza riconosce che nel valutare la prova del falso, il Giudice deve guardarsi da due insidie: dall'uso di criteri estetici e soggettivi tipici della critica d'arte, inadeguati per l'accertamento penale e dalla distorsione introdotta da dichiarazioni di autenticità influenzate da interessi privatistici e conflitti economici. La corretta attribuzione di un'opera è fondamentale per l'integrità del mercato dell'arte, ma quando la catalogazione è gestita da fondazioni in concorrenza, il loro parere deve essere scrutinato con estrema cautela per evitare che dinamiche di mercato vengano erroneamente elevate a prova di reato.
Questo approccio rigoroso funge da bilanciamento, garantendo che la tutela penale non diventi strumento per risolvere controversie di natura civilistica o economica tra operatori del settore, ma rimanga circoscritta all'accertamento obiettivo della falsità dolosamente immessa nel mercato. Un lodevole esempio di concretezza giudiziaria.





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